Fabio Moscatelli è un fotografo romano che ha fatto del reportage la sua missione. Ho deciso di conoscerlo dopo aver letto – per caso – un suo commento su Facebook. Conquistato dal suo straordinario talento ho deciso di intervistarlo.
“Se sapessi raccontare una storia con le parole non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica”
Ciò che più mi ha sorpreso del tuo modo di fotografare è stata la grande vicinanza ai soggetti delle tue storie. I progetti che ho potuto ammirare testimoniano un’importante maturità nel muoverti in contesti non semplici. Sei sempre lì, in primo piano, costantemente presente, pronto a cogliere le sfumature. Come ci riesci?
In questo mi aiuta molto il mio carattere. Ho una certa facilità di approccio con le persone ed anche una certa sfrontatezza pur sempre rispettosa. Partendo da questa considerazione tutto diventa fotograficamente più semplice. Sono orgoglioso e soprattutto felice di poter dire che quasi tutti i soggetti fotografati fino ad oggi possa chiamarli amici.
Fantastico. Quindi si tratta proprio di un’attitudine naturale…
E’ una gran fortuna per chi ama la fotografia di reportage. E’ chiaro che ho ricevuto anche dei “no grazie”, ma fa parte del mestiere e non per questo si deve perdere considerazione e rispetto per chi rifiuta.
Non sai quanto una persona timida – come me – possa invidiare chi è naturalmente predisposto al reportage.
Credo che ogni fotografo abbia una sorta di propensione naturale. Personalmente invidio in maniera genuina i paesaggisti.
Ma a proposito di “no grazie”, qual è stato quello che ti è più dispiaciuto?
Il “no” che mi è dispiaciuto maggiormente l’ho ricevuto da un’anziana professoressa di pianoforte, una donna incredibile di quasi 90 anni. Vive sola – in piena autonomia – in una sorta di casa mausoleo. Un personaggio estremamente interessante in un contesto ricco di spunti interessanti. Non se l’è sentita ed io non ho insistito. Siamo rimasti in buoni rapporti. Capita e probabilmente capiterà ancora, ma un “no” può essere anche un buon punto di partenza per cercare nuovi stimoli e soprattutto nuove storie.
Com’è che ci si inventa un reportage? Parti da una tua idea e cerchi la situazione giusta o aspetti che ti capiti qualcosa di interessante vivendo alla giornata?
La fotografia è uno strumento molto potente, soprattutto per conoscere ed approfondire. Io la utilizzo cercando di sfruttare queste sue potenzialità. Mi cito con un recente esempio: conoscevo molto poco l’argomento autismo ed ho pensato di approfondirlo attraverso un progetto fotografico che sta lentamente prendendo forma. E’ chiaro che esistono anche delle situazioni che bisogna saper cogliere e da cui poi partire per dar vita al reportage. In tal senso occorre allenare l’occhio ad osservare e studiare attentamente ciò che ci circonda, anche e soprattutto nel quotidiano. Siamo attorniati di storie interessanti, a volte basta saperle cogliere.
Ad esempio come sei arrivato a Mario? Il lavoro che hai fatto è straordinario.
Una casualità straordinaria! Avevo vinto – attraverso una fotografia – un abbonamento alla rivista Geo e sul primo numero si parlava di eremiti nel mondo, tra cui proprio Mario. Lessi che viveva in una grotta nei pressi di Roma e andai per conoscerlo; quella domenica lui non c’era, ma mi imbattei in un signore che curava degli orti vicino la grotta di Mario che mi diede il suo numero di cellulare. Una volta contattato ci incontrammo e iniziammo la nostra collaborazione. Era proprio destino! Il lavoro con Mario è stato molto semplice, lui adora essere “protagonista”, stare di fronte all’obbiettivo era molto naturale per lui.
Che coincidenza incredibile! Per quanto tempo sei stato insieme a lui?
Ci vediamo ancora! L’ho visto due settimane fa. Sono andato a trovarlo nella sua grotta. La sua compagnia è molto preziosa. E’ una persona di una cultura ed intelligenza fuori dal comune. Non porto più la macchina fotografica, ritengo il lavoro concluso; è durato circa un anno e sento che avrei ben poco da aggiungere a quello che ho espresso con le immagini. Quello che non ritengo assolutamente concluso è il rapporto con Mario, come avrai capito.
Straordinario pensare che la fotografia – ancora oggi, nonostante la velocità dei nostri tempi – possa essere una semplice scusa per instaurare un’amicizia.
Se si riesce a viverla in questi termini assume un valore inestimabile. Io considero il mio archivio fotografico un piccolo grande patrimonio di esperienze di vita.
Ci credo Fabio. Un patrimonio inestimabile.
Le composizioni fotografiche dei tuoi scatti sono quasi sempre impeccabili. Sempre curate fino al minimo dettaglio. Eppure nel reportage sociale – di cui spesso ti occupi – i fatti si susseguono un po’ per caso. Come organizzi il tuo lavoro?
In maniera assolutamente spontanea e casuale. Scrivo molto prima di iniziare a fotografare in modo da focalizzare i punti forti del progetto e magari trasporli poi in immagine. In realtà non sono così attento alla composizione, o meglio non mi attengo alle regole pure della fotografia. Ad una bella foto preferisco una buona foto. Se poi i due fattori riescono a coniugarsi sono il primo ad esserne soddisfatto, ma prima dell’estetica credo che l’attenzione maggiore vada rivolta al contenuto. Nel reportage è fondamentale.
Beh, hai ragione. Mi fai venire in mente alcuni appassionati, convinti che la fotografia sia una mera questione tecnica. E tanti altri – soprattutto sui forum – che passano le ore a disquisire di attrezzature. Nikon, Canon, etc.
Discussioni davvero sterili per quanto mi riguarda. L’attrezzatura non rende fotografi, certamente aiuta nel migliorare le proprie foto se si possiede materiale di qualità, ma l’occhio – quello – non puoi comprarlo, così come l’emotività. Se una buona metà delle discussioni sull’attrezzatura vertessero su cultura fotografica il livello medio italiano ne gioverebbe sicuramente.
Ma – per quanto si tratti di argomenti sterili – deve esserci un’ottica della quale proprio non riusciresti a fare a meno. Zoom o ottiche fisse? Ad occhio e croce direi che usi spesso un 24-70mm.
Non nego di avere un buon parco ottiche, ma utilizzo esclusivamente dei fissi. Prediligo ottiche corte e da circa due anni utilizzo un 28mm a cui non rinuncerei mai. Mi permette, o meglio mi “costringe” ad avvicinarmi. In questo modo la resa del mio lavoro ne giova sicuramente. Chi guarda un lavoro di reportage deve sentirsi coinvolto. Deve stare dentro, quasi come il fotografo, e questo te lo consente quasi esclusivamente l’ottica corta.
Beh, e direi che ci riesci benissimo! E sulla post produzione? Anche lì menate su menate, ma tu come la vedi?
Ci provo, ma non sta a me dire se riesco o meno. Trovo molto difficile dare un giudizio sul mio lavoro. Certo so essere critico nel bene e nel male, ma preferisco sempre il giudizio di terzi altrimenti si rischia di essere troppo di parte. In fondo ogni fotografia è una piccola parte di noi.
Non credo che il reportage necessiti di una massiccia post produzione. Correggere sì, manipolare mai. Un racconto perderebbe di valore, inganneremmo chi guarda. Certo, proprio in questi giorni con l’assegnazione del World Press Photo 2015, è un tema molto molto caldo.
Intendi dire che premiare – e quindi incentivare – immagini dalle importanti post produzioni sia sbagliato? Mi riferisco naturalmente al World Press Photo.
Ho letto che sono state squalificate diverse fotografie, ma non per eccessiva post, quanto per la manipolazione delle immagini stesse. E’ accaduto perfino a foto potenzialmente vincitrici di essere poi estromesse dopo la visione dei RAW. Io sono innanzitutto contro la manipolazione, poi una foto può essere chiaramente post prodotta, ma se è fatta di giorno non capisco perché vada ritoccata per diventare un notturno… non so se mi spiego.
Beh, quelli sono degli estremi assurdi, soprattutto in contesti di così alto livello. Ma permettimi per un attimo di fare l’avvocato del diavolo. Il RAW ha sostituito la pellicola e Photoshop la camera oscura. Cosa c’è di male nel “finalizzare” una fotografia, anche oltre gli standard?
E’ chiaro si potesse “barare” anche in camera oscura e che oggi sia anche più semplice. Il discorso di trasformare – di andare oltre – va benissimo in certi ambiti fotografici dove anzi è quasi necessario, ma personalmente penso che nel racconto serva in maniera limitata. Si rischia di dare forza alla propria storia attraverso l’estetica e non attraverso il contenuto. Se io spoglio una foto di reportage del suo contenuto estetico qualcosa mi deve rimanere, altrimenti la foto ha fallito. Il mio non è chiaramente un discorso applicabile allo still life o al glamour tanto per fare due esempi.
Torniamo per un attimo al reportage. Il tuo impegno ci insegna che non è necessario fare tanti chilometri e arrivare in posti lontani per raccontare storie o drammi sociali. Eppure molti sono proiettati soltanto verso l’estero, zone di guerra, etc. Pensi abbia a che fare con il non vedere più ciò che si ha attorno?
Credo sia prettamente una questione o regola di mercato: raramente una storia raccontata sul nostro territorio riesce ad avere un’eco potente, a parte qualche eccezione. Poi c’è il discorso dei grandi Grant, dove si presuppone che il fotografo presenti un lavoro fatto agli antipodi rispetto al suo territorio, altrimenti non viene neanche preso in considerazione. Questo non vuol dire che i fotografi non debbano andare in Ucraina o in Syria o in Libia, c’è sempre bisogno di documentare, ma cercando di dare rilievo anche a ciò che ci accade non solo a migliaia di km di distanza.
Tornando per un attimo al World Press Photo, la foto vincitrice non si inquadra in un contesto preciso, potrebbe essere stata scattata ovunque. Lo prendo come un segnale, qualcosa forse sta cambiando, anche se a molti questo ha fatto storcere la bocca…
Che intendi? Cos’è che sta cambiando? La crisi del fotogiornalismo ha portato moltissimi fotografi a rivedere i programmi sul proprio futuro. Qualche anno fa un buon reportage poteva essere venduto anche a 7000 euro all’estero e appena 1000 in Italia. Dopo la crisi tutto è peggiorato ulteriormente…
Si sta creando una concorrenza al ribasso. Quanti reportage abbiamo visto sull’Ucraina? Centinaia. Ma quanti erano effettivamente di qualità? Pochissimi. Ma della qualità quanto importa alla testata di turno, se può avere un lavoro simile ad un quarto del prezzo. Mettiamoci poi che chi guarda non ha una cultura dell’immagine adatta ed il gioco è fatto. Sono stato in Palestina per l’anniversario della morte di Arrigoni e da qui sono partito per lavorare sulla Cisgiordania. Niente sangue, niente violenza, solo storie di vita quotidiana. Il risultato? Non va bene, non si vende, almeno qui in Italia. Avverto quasi una certa tendenza allo splatter, cui purtroppo c’è una sorta di assuefazione generale. Riflettiamo un attimo sull’effetto che certe immagini avrebbero fatto venti o trenta anni fa. Ecco perchè oggi – personalmente – preferisco lavori più intimi e personali a quelli di attualità.
Mi stai dicendo che è meglio non campare di fotografia piuttosto che vendersi a questo mercato?
Assolutamente no, ma chi vuole vivere di fotografia – di questa fotografia – e soprattutto può permetterselo, deve sottostare a certe regole e magari snaturare la propria propensione ad un certo tipo di racconto che rischierebbe di fare muffa nel proprio hard disk.
Ipotizziamo per un attimo che ci si abbassi alle regole di mercato realizzando qualcosa di più crudo e commerciale. Il gioco vale la candela? Quanto si può guadagnare?
Mi viene in mente un bellissimo lavoro di Ivor Prickett che non ha vinto premi, non è apparso su riviste, eppure ha una forza emotiva unica: The Quiet After The Storm. Detto ciò non credo che si possa in qualche modo svoltare con la fotografia. Chi è già affermato continua a viverci benissimo, ma vedo pochi giovani che riescono ad affermarsi in maniera decisa. Prendiamo ad esempio Andy Rocchelli, celebrato dai mass media solo dopo la sua morte, ed ora anche premiato con il World Press Photo. La sua storia – per chi ha voglia di andare a leggerla – è l’emblema di come sia estremamente complicato vivere di fotografia, seppur dotati di grande talento. Poi, come in tutti i settori professionali, c’è chi va avanti grazie non solo alla propria bravura, ma questo è un altro discorso.
Avrei tanto voluto chiederti un consiglio destinato ad un giovane che vuol fare della fotografia il suo mestiere, ma a questo punto mi viene quasi difficile andare oltre.
Il consiglio è di credere nel valore del proprio lavoro, sempre e comunque. Di non scoraggiarsi alla prima difficoltà o alla prima smorfia di un photo editor. Se si crede in quello che si realizza occorre portarlo avanti a costo di grandi sacrifici. Nonostante tutto credo che il talento paghi sempre. Altrimenti dovremmo riporre tutti le nostre macchine fotografiche in un bell’armadio e tirarle fuori per la scampagnata domenicale.
Sono perfettamente d’accordo con te. Il talento e la testardaggine – alla fine – da qualche parte finiscono comunque per portarti. Grazie Fabio per il tuo prezioso contributo.
Grazie a te!
Infine – per potere apprezzare al meglio i progetti di Fabio Moscatelli – vi consiglio di fare un salto sul suo sito cliccando qui.
Una piacevole scoperta grazie ad una bellissima intervista.
Adoro il reportage perché attraverso esso viene fuori tutto lo stile e soprattutto la sensibilità del fotografo. Seguirò con interesse i lavori di Fabio 😉
La storia che si racconta e la sensibilità del fotografo sono tutto. Mai dimenticarsene! 🙂
Ben detto 😉
Grazie Giulio, e grazie Fabio. Ogni tanto fa bene al cuore leggere di fotografia al di fuori della quotidianità commerciale.
Grazie per il tuo commento Nicola. Tante persone passano da qui, ma in pochi lasciano commenti o condividono. Eppure penso che la testimonianza di Fabio arricchisca tantissimo un lavoro come il nostro, spesso banalizzato da discussioni inutili o infinite lamentele.
Infatti, è stata una boccata di aria fresca ed anche un pò una bacchettata per ricordarsi il valore della fotografia. Colgo l’occasione anche per farti i complimenti al tuo lavoro che considero un punto di riferimento. Ciao a presto:-)
Troppo gentile. Grazie ancora! A presto.
Davvero bella la citazione “Se sapessi raccontare una storia con le parole non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica”. Io ho deciso di unire la passione per la scrittura a quella per la fotografia.