Sin da piccolo sono sempre stato molto affascinato dai racconti delle imprese di grandi uomini. Quelle storie fantastiche e affascinanti, in cui si ammira il coraggio, l’impegno e la concentrazione degli individui. La forza mentale e fisica che li portava al compimento di avventure straordinarie e per questo mai riuscite prima. Personaggi il cui intento consisteva d’entrare nella storia, o semplicemente fare quello che più li appagava. E che si trattasse di scalare una montagna, attraversare un oceano o imparare a volare, l’intento di raffigurare quell’impresa è sempre stato fondamentale.
La lunga relazione tra la fotografia e l’inesplorato mondo dei ghiacci ha inizio un paio di secoli fa, precisamente nel 1845. In quel periodo storico l’entusiasmo verso la ritrattistica fotografica è ai suoi massimi livelli. I viali di Londra pullulano di studi fotografici e i margini di guadagno sono molto alti. Una nuova cultura basata sulle immagini non fu annunciata solo dal dagherrotipo, ma da tutta una serie di tecnologie e da un pubblico affamato di immagini spettacolari del mondo e dei suoi popoli.
Nel 1845, per la prima volta, un’apparecchiatura fotografica viene imbarcata in una spedizione verso l’Artico, precisamente sull’Erebus di Sir John Franklin. Si suppone che le prime foto polari siano state impresse proprio in quell’occasione, anche se mai pervenute. Solo in seguito, nel 1948, si apprese che la spedizione rimase bloccata tra i ghiacci, dove perì tutto l’equipaggio.
Nel 1852 si inizia a sentire parlare della fotografia di viaggio. Le stupefacenti fotografie di templi e tombe egizie lungo il Nilo, riprese da Maxime du Camp, vengono pubblicate a Parigi. Nello stesso anno William Domville, imbarcato in una delle spedizioni alla ricerca di Franklin, realizza la prima immagine fruibile (calotipia) del circolo polare Artico.
Un uomo dell’equipaggio posò per Domville, seduto su una roccia. Provò anche a fotografare alcuni groenlandesi, ma senza riuscirci. “Feci un tentativo di riprendere le sembianze di alcuni indigeni, ma non vi riuscii, essendo impossibile tenerli tranquilli. Ridevano, parlavano o muovevano la testa nel momento più importante dell’operazione” scrisse Domville.
Nel 1854, Edward Inglefield, prende ispirazione dal manuale del processo fotografico al collodio umido, ricco di consigli per il fotografo di viaggio, e dalla grande esposizione di Londra, e partì con la spedizione Phoenix. Porterà a casa circa venti negativi originali su lastra di vetro, tra cui paesaggi e ritratti a gruppi di Inuit.
Nel 1860, Isaac Hayes, aggiunse un interessante contributo, realizzando le prime stampe multiple (stereoscopia) dell’Artide. Per farlo raccolse i fondi necessari per acquistare qualche apparecchiatura fotografica, ma non per ingaggiare un fotografo, per cui si adattò a fare tutto da se.
Nel 1869 l’artista americano William Bradford, ossessionato dai paesaggi artici, per la sua settima e ultima spedizione artica arruolò due fotografi professionisti di Boston, John Dunmore e George Critcherson. I due facevano a gara per riprendere le immagini sui ghiacciai sotto il sole di mezzanotte. Le fotografie realizzate vennero stampate e incollate a mano in una pubblicazione di grandissimo successo: The Artic Regions. La prima a prenotarlo fu la regina Vittoria.
I progressi della tecnica facevano sì che chiunque, purché avesse denaro a sufficienza, potesse entrare nel nuovo mondo fatto di immagini. La fabbricazione e il commercio delle lastre a secco e della carta fotografica registrarono una crescita considerevole. Nel 1888 l’introduzione della prima fotocamera Kodak tracciò una nuova rotta. Per fare una fotografia bastava premere un pulsante. L’utente non aveva bisogno di sapere nulla sulla fotografia. “Premete il pulsante e noi facciamo il resto” recitava lo slogan.
Nel 1909 Robert Peary approfittò delle nuove apparecchiature e, con grande gioia dei suoi patrocinatori, si fece la strada per primo al Polo Nord. Colse inoltre l’occasione per scrivere un manuale di fotografia: “Kodak at the North Pole“.
La gente era ben lontana dal rendersi conto di che cosa si stesse per perdere entrando in questo sfrontato mondo di immagini. Tuttavia per molti esploratori i fotografi non costituivano un fastidio, bensì una benedizione, poiché erano in grado di catturare i momenti eroici di una spedizione e mostrarli al pubblico. La figura del fotografo divenne quindi fondamentale per costruire la fama dei grandi viaggiatori.
Herbert Ponting fu certamente il migliore tra i fotografi polari di quei tempi. Venne ingaggiato come fotografo ufficiale per la spedizione di Scott, partita per il Polo Sud nel 1910. Le macchine fotografiche utilizzate erano delle Sybil appositamente costruite dalla Newman & Guardia con particolare attenzione alla robustezza e alle dimensioni ridotte.
“Ponting non riesce a tollerare i pasti, ma si dedica costantemente al suo lavoro mentre sta male… con un disco per sviluppare in una mano e un catino nell’altra” raccontava il comandante. Divertente l’aneddoto secondo il quale Ponting continuava a insistere con i compagni perché si facessero fotografare, per cui questi coniarono il verbo “to pont” che significava “posare fin quasi all’assideramento in ogni sorta di posizioni scomode” dopo essere stati assillati per farlo.
Nel corso della spedizione impressionò più di 7500 metri di pellicola e 2000 negativi fotografici, catturando alcune delle immagini più suggestive mai realizzate in Antartide. La bellezza delle sue inquadrature è stata raramente uguagliata.
Chi invece, in quegli anni, sottovalutò il fenomeno fotografico fu proprio il primo a raggiungere per primo il Polo Sud nel 1911, Roald Amundsen. Per lui la fotografia era solo un metodo di documentazione, un mezzo per illustrare le sue conferenze. “Se riprendo sei foto con aperture e tempi diversi almeno una sarà utilizzabile” diceva. Tuttavia al ritorno dalla spedizione perse molte migliaia di corone proprio perché non aveva fotografie adeguate.
Benché Scott non sia riuscito ad arrivare per primo al Polo Sud, le immagini di Ponting permisero di poterne parlare ancora. “Per lui questo nostro mondo è diverso da come è per noi” – scriveva Scott – “lo valuta in base alle qualità pittoriche. La sua gioia consiste nel riuscire a produrre un’immagine artistica, la sua tristezza nel non riuscirci… è rapito dal suo lavoro e usa espressioni che chiunque, anche in altri campi, considererebbe stravaganti. Ponting è l’uomo più felice che abbia mai visto e passa tutta la giornata e buona parte della notte, come dice lui, a “raccogliere tutto” con la macchina fotografica.“
Le conquiste ad opera di questi uomini sono ricche di fascino. I loro diari sono giunti sino ai giorni nostri, permettendoci di condividere i pensieri, le preoccupazioni e le gioie. Ancor più straordinario pensare quanto potesse essere importante realizzare delle immagini del genere in quegli anni, agli albori della fotografia. Combattendo con il congelamento degli acidi e delle apparecchiature fotografiche, dovendo aspettare svariati minuti a scatto nella speranza di non avere sbagliato qualcosa, o che il soggetto non si sia mosso troppo. Storie da non dimenticare e che, negli anni, ci ricorderanno, di tanto in tanto, l’originale importanza della fotografia.
Roald Amundsen, morì nel 1928 in un incidente aereo avvenuto sopra i cieli del Mar Glaciale Artico. Fu il dirigibile Italia a cercare di soccorrerlo precipitosamente, ma l’idrovolante su cui salì scomparve in mare senza mai essere ritrovato.
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